Le cose abitano dentro di noi. Non si deve cercarle per poterle vedere, ma liberarle dal mucchio di ramaglie che le occulta.
Un giovane e ricco ingegnere decide di abbandonare la città per trasferirsi in una baita in alta montagna. Progetta e fa costruire una casa dotata di ogni più lussuoso comfort, un ambiente dove possa vivere in assoluto relax, contemplando la bellezza del luogo e godendo il più possibile della luce del giorno. Le ore di sole però non gli bastano, così ordina di abbattere il picco del monte dietro il quale tramonta. E da lì il successivo, e quello dopo ancora, trascinato dalla sete di potere e denaro, minacciando o corrompendo chiunque intralci il suo delirio di onnipotenza.
Una favola ambientata in uno pseudo presente e proiettata in un futuro catastrofico dove l’uomo, vittima dell’avidità e della tecnologia, annulla ogni forma di coscienza per distruggere la natura e calpestare la vita.
L’idea c’è, ma purtroppo solo quella. Il libro è frettoloso, carente nelle descrizioni di luoghi e personaggi, ripetitivo nella trama, traboccante di luoghi comuni e frasi fatte. Il trionfo della retorica e della banalità.
Mauro Corona ci aveva abituato a storie delicate, in cui l’amore per la montagna ed il rispetto per la natura erano poesia per il lettore. Forse, nelle sue sempre più frequenti apparizioni televisive, è entrato nel vortice del protagonismo sterile delle polemiche rabbiose e affatto propositive, o forse è stato spinto dalla “febbre di pubblicazione” che porta a sfornare un libro all’anno. Fatto è che il risultato non è stato dei migliori.